I remember Racconto di Marisa Salabelle

A quando risalgono i nostri ricordi più antichi? Cosa affiora in noi dagli anni lontani della prima infanzia? Non è molto facile stabilirlo, perché in parte quello che sappiamo, e che crediamo di ricordare, della nostra infanzia ci è stato raccontato, o l’abbiamo visto in foto o in quei filmini familiari formato Super 8 che si usavano ai miei tempi. I bambini d’oggi, poi, hanno un tale archivio da consultare che immagino non riescano a distinguere quelli che sono loro ricordi personali da immagini che hanno visto e rivisto sugli schermi dei cellulari. Mio nipote Dario, per esempio, ha quattro anni e un’ottima memoria, ricorda persone, luoghi, episodi anche abbastanza lontani nel tempo, però la sua memoria è aiutata e in parte modificata dalle tante immagini e video che adora guardare e riguardare. E comunque mi sono accorta che alcuni momenti dei suoi primissimi anni sono già scomparsi o stanno scomparendo dalla sua testolina.

Quanto a me, i miei primi ricordi risalgono a un periodo che ritengo vada dai tre anni ai quattro anni e mezzo. Avevo tre anni quando è nata mia sorella Daniela, quattro quando i miei nonni si sono trasferiti da Cagliari a Firenze e noi abbiamo cambiato casa, da via Santa Restituta a via della Pineta, quattro e mezzo quando è nato mio fratello Maurizio. All’interno di questi riferimenti temporali si collocano le mie memorie più lontane. Ricordo mio padre, seduto nella sua poltrona, al quale mostro con orgoglio una bellissima mela rossa e lui con un morso me ne porta via mezza: io piango. Quanti anni avrò avuto? Ricordo una volta, quando io, mio padre e mia madre camminavamo per la strada tenendoci per mano e cantando “Siam tre piccoli porcellin”: era già nata, Daniela, o eravamo ancora solo noi tre porcellini? E ricordo nitidamente il compleanno di mia madre, il 23 gennaio 1959: compiva 26 anni, io ne avrei compiuto quattro di lì a tre mesi. Per farmi uno scherzo (i miei genitori mi facevano scherzi orribili che mi turbavano profondamente) e dimostrarmi quanto fosse diventata vecchia, si era spolverata i capelli di borotalco in modo da farmi credere che si fosse imbiancata durante la notte. Ricordo anche il mio urlo di terrore a quella vista.

Ricordo la casa di via Santa Restituta, ma dopo di noi ci ha abitato, appena sposato, uno dei miei zii, per cui ho avuto modo di tornarci anche dopo averla lasciata. Ricordo ovviamente la casa di via della Pineta, ma ci ho abitato fino all’età di dieci anni. Ricordo la casa dei miei nonni, e qui sono piuttosto sicura dei tempi, perché dopo che loro se ne sono andati “in continente” non ci ho potuto più rimettere piede. Aveva un corridoio lungo e stretto e un telefono a muro vicino alla porta d’ingresso. Ricordo anche i mobili, ma quelli ho continuato a vederli per anni in tutte le case dove i nonni hanno abitato. Ricordo un pomeriggio in cui giocavo con certe letterine di plastica che mi avevano regalato: avevano un sistema di bottoncini che permetteva di unirle le une alle altre per formare parole. Avevo quattro anni e armeggiavo con quelle letterine un po’ a casaccio, quando dopo averne assemblate alcune mi accorsi che formavano una parola dotata di senso, ed esattamente il nome di mio zio Efisio. Ricordo la sorpresa per aver composto, quasi inconsciamente, la mia prima parola e l’orgoglio con cui andai a mostrare la mia opera ai miei genitori.

Ricordo alcune vecchie signore dalle quali mia nonna mi trascinava in visita: Zietta e Zia Luigia, cugine di mio nonno, Zia Luigia poi morì ed è stato il primo cadavere che ho visto. Zia Agata, una donna vecchissima che mi sembrava completamente mummificata, e Zia Annina, sua figlia, alta, austera, sempre con la testa inclinata da una parte, sono persone che ho visto anche in seguito, per cui non so a quando risalgano i miei primi ricordi di loro.

Ricordo una notte, e so esattamente dove situarla, il 3 settembre del 1959: avevo quattro anni, quattro mesi e 12 giorni. Mio padre mi svegliò per dirmi che era nato un fratellino e che lui sarebbe andato in clinica dalla mamma. «Maschio?», gli chiesi, perché pareva che nella nostra famiglia potessero nascere solo femmine: io, una neonata prematura che non sopravvisse al parto e che in casa veniva chiamata “quella bambina”, sebbene un nome gliel’avessero dato, Maria, e mia sorella Daniela. Un maschio era una novità assoluta in quella serie di bimbe, un evento considerato improbabile. A quell’epoca, e non è banale per il 1959, già sapevo che i bambini stavano nella pancia della mamma, poi la mamma andava in clinica e lì i bambini nascevano. E ricordo anche un episodio precedente alla nascita di mio fratello, quando stavamo già in via della Pineta e mamma aveva il pancione. Noi in casa con sa zeracca, la ragazza che viveva con noi e svolgeva tutte le mansioni, dalla pulizia della casa alla cura dei bambini, come allora si usava. I miei genitori erano usciti nel pomeriggio e a un certo punto rientrarono: ricordo che li vidi salire le scale dal pianerottolo del nostro appartamento al quinto piano: nel palazzo non c’era l’ascensore. Arrancavano per le scale portando delle borse piene di spesa, e ancora a metà della salita mia madre mi gridò, felice: «Abbiamo comprato il televisore!» Io le corsi incontro e febbrilmente frugai nelle borse della spesa, convinta di trovarlo là dentro.

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