LA SETTIMA CASA VUOTA (LE FERITE DEL PADRE RICADANO SULLA FIGLIA) by Telleena Sbacchi

Te lo incarto? – mi dici –
Portalo via – aggiungi
Ti lascio tutto anche l’ombra
ho bisogno dell’assenza
del vuoto
del dolore
Per ricominciare
Senza te
Te
Senza
Me
Senza TeMe-re

Come uno spillo. La testa della goccia che rimane salda sulla superficie bianco matto del lavandino mi ricorda tanto me. Aggrappata a pareti a picco rischio di cadere dentro me stessa. Il mio riflesso è distorto dalla rabbia. Oggi, te l’ho mostrata. Mi hai sentita scaraventare parole al vuoto della stanza, mentre tu dall’altra parte del telefono ascoltavi in silenzio. Il silenzio. Ti ho mostrato la ferita profonda di figlia che rimane sempre figlia. La mia storia singolare. Perché non importa l’età. Non importa la forza, né l’equilibrio di cui siamo dotati. Né quello che ci siamo duramente costruite. Rimaniamo figlie, figli, di madri e padri che ci hanno resi rotti. E rotto è il mio modo di amare.

Qui, in queste pagine virtuali, nell’Isola delle Correnti, la mia personale isola di San Giulio dove il nome è ripetuto nella corrente, trascinato via. Mi appartiene e non appartiene. Nell’anagrafica di un’identità indossata per distanza dalla realtà. Dove altri mi chiedono di essere altro. Qui, proprio qui. Adesso. Mi è concessa la confessione. Il mio peccato di figlia. Di donna a metà.

Ecco la mia ferita più profonda, ti dico, dopo che il piede ha picchiato sul tavolino basso di legno. Dopo che ho augurato a tutta la mia stirpe la maledizione che conviene a una famiglia strana come la mia. Chi non lo è? mi dicesti la prima volta. Chi non lo è? hai ripetuto. Ora non lo fai più. Figlia di Cronos, padre che mi ha divorato con la sua storia straordinaria, che mi ha trasformata appendice del suo futuro e, ciò che è peggio, del suo passato di figlio.

Lui che batteva la mano sulla mia schiena: mia figlia, mia figlia. Con l’orgoglio del costruttore. Mi apriva lo stomaco e la testa e mostrava i meccanismi, fiero, della stessa sostanza del padre. Mai che avesse aperto lo sportellino del cuore.

Siamo giocattoli rotti, ti dico. E tu dici che per te non è così. Ti rispondo con il silenzio, mentre nella testa faccio l’elenco di tutte le assenze che hai portato in dote nel nostro rapporto. Li abbiamo chiamati “i nostri buchi”. Ce li siamo mostrati a vicenda, segnando la mappa dei vuoti, delle assenze, svoltando in quelle delle paure. Pensi che questo filo possa bastare? Pensi che la sutura reggerà? All’ennesimo litigio, all’ennesimo addio, all’ennesimo vai via. All’ennesimo… Non posso restare.

Emme dice che la mia settima casa è vuota. V-u-o-t-a ripete, scandendo le parole quasi lanciasse una maledizione. Penso che in qualche modo questo suo farmi i tarocchi, questo suo aver trovato i segni della mia incapacità d’amore (che gli astri mi hanno assegnato), la faccia stare meglio. La mia casa dell’amore è vuota, lo dice con un gran sospiro. Come se sentisse cadere il macigno dal cuore. Ecco perché… mi dice. Ecco perché non mi hai mai amata. Sembra sollevata. Alzo le spalle, sorrido, come se questa non fosse una tragedia. L’ennesimo sortilegio che lancia alla mia assenza nella sua vita. E vaglielo a spiegare che non è così. Che l’ho amata, che il mio amore ha (forse. Sembrerebbe avere) date di scadenza brevi.

La settima casa è vuota, e non so bene cosa credere, se credere. Che cosa significhi. Immagino una grande casa vuota, con il segnale dei quadri mancanti sulle pareti ingiallite. Hai presente? Immagino una grande casa vuota, con finestre grandi spalancate su un orizzonte bianco come nelle immaginazioni delle polaroid di Tarkovsky. Forse qualche vetro è rotto. Immagino una grande casa vuota, con stanze senza finestra. Immagino una grande casa vuota a terra ci sono i segnali di un tappeto che è stato portato via, di qualcosa che è stato trascinato a forza, e rimane la polvere a segnare i passaggi. Immagino una grande casa vuota con specchi alle pareti coperti da lenzuoli bianchi, macchiati dal tempo. Immagino una grande casa vuota a fine estate, che attende il ritorno, che teme l’inverno, che conta le stagioni. Una casa che aspetta. Grande. Vuota.

Dopo l’emorragia emotiva avviene il silenzio, ti scrivo. E sto in silenzio. Nella casa vuota. Nell’unica poltrona dal piede mancante che rimane, coperta dal telo bianco pieno di polvere. Mentre guardo il vento parlare al vuoto. Mentre aspetto un ritorno, il mio, che non è mai avvenuto.

Adesso che la rabbia ha lasciato il mio corpo rimane il dolore, l’imbarazzo, l’impotenza di chi riconosce la ferita ma non sa sanarla, ti scrivo. Che voglia ho di fuggire. Dalla casa vuota. Anche da me. La poesia con cui entro in questa chiesa di carte virtuali, sali su, rileggila. Quella con cui inizio qui e qui e qui… è rivolta a me. Sono io il “te”. Sono io, il mio riflesso. Sono io a parlarmi. Non so bene se sia io a parlare a lui, o lui a parlare a me.

Non so cosa sono, ma so cosa non sono. So cosa vorrei essere. ti scrivo. Capirai? mi dico. Sarai capace di amare questa casa vuota? ti vorrei chiedere.

Penso che nonostante tutto. Nonostante la settimana casa abbia per me già tracciato il destino della solitudine. Dell’incapacità di amare ed essere amata. Io, vorrei che tu bussassi alla mia porta. Che non ti accontentassi delle mie parole per messaggio. Che mi venissi a salvare. “L’amore è sutura. Sutura, non benda, sutura – non scudo” (Marina Cvetaeva). Vorrei che afferrassi lo scudo con il quale ti sto respingendo. Che mi baciassi a lungo. Che mi strappassi dalla bocca e dal cuore tutte le parole di solitudine che in questi anni ho tessuto intorno a me, una foresta di spine dentro la quale mi avvolgo. Pungo. Bradamante sfida la foresta. Il mio spirito ribelle, incauto, inquieto è però cortese, a suo modo, nasconde tanta semplicità.

Nonostante tutto, vorrei che bussassi alla mia porta e non ti accontentassi del mio no. Come spesso faccio con te quando ti trinceri nella tua nostalgia, ti affami nel tuo dolore, affoghi tutta. E non mi resta che attraversare la distanza che metti. Guadare il dolore. Ti afferrò dai capelli, con mani piccole e inesperte ti asciugo ogni centimetro di corpo. Ti bacio gli occhi. Ti respiro le labbra. E mi faccio specchio per ricordarti quanto tu sia bella.

Vieni e prendimi, vorrei dirti. Tu continui a scrivermi. Mi chiedi se possiamo sentirci. Io continuo a rifiutarti e a dirti che ho bisogno di silenzio. Continui a infilare lettere sotto la mia porta, ma le tue parole di carta non riescono a calmarmi. L’assenza del tuo corpo, del tuo odore, è un lutto. La tua risposta – di parole messe in fila su un display freddo – alla mia ferita lo è.

Dopo l’emorragia emotiva avviene il silenzio. Per questo per gli strizzacervelli ci saranno sempre sale d’attesa piene. E per gli arrotini di rabbia sempre punte da lucidare. Le case vuote saranno sempre piene di individui singoli. Si può abitare in due, come capita a noi, ma su tempi paralleli e mai coincidenti. Io, con le ferite di mio padre che si è portato via tutto. Tu con le tue. La differenza? io le riconosco. Sono figlia anche quando sono amante e mi porto quel registro di non amore, quelle sottrazioni anche mentre mi accosto al tuo corpo, al tuo cuore. E te lo dico.

Ti mordo le labbra. E sanguini del mio sangue.

Adesso capisco. Mi scrivi. Quanto dolore, quanta rabbia. Continui con il bisturi a una distanza che un amore mi chiedo possa concedersi. Cosa dice il manuale dell’amante? Sii presente, sii contenitore, sii mano, respiro, braccio, carezza, perdono. In questa condizione, mi avvilisce l’averti permesso di vedermi nuda e fragile. Molte delle cose che mi hai detto trovano finalmente posto e forma. Come in un puzzle. E vedo i pezzi di me che le tue mani dispongono sul tavolo, davanti ai tuoi occhi, e tu cercassi di mettere ordine e significato al mio caos. Leggo le tue parole e mi allontano da te. Mi allontano dal tuo bisturi, dal tuo monocolo. Non che debba avere sempre questo aspetto fermo e stabile ai tuoi occhi. Ognuno ha le sue maree, le sue nausee, i suoi calare a picco. Vederti così smarrita mi spezza il cuore. Riuscire a rimanere integra, mentre ti senti così colpita, in ferite che non riescono a rimarginarsi. Mi scrivi. Mi chiudo. Quanta intimità sgrani nelle parole. Parole che dovrebbero essere pronunciate a bocca, a fiato. Sulla mia pelle.

Chiudo le finestre. Mi rannicchio nell’unico angolo disponibile. Non ho più voglia di sentirti (e non te lo dirò. Anzi ti terrò al sicuro. E tu rimarrai nel silenzio che ti offro). Dovresti essere qui, taccio, mentre ti auguro la buonanotte nell’ennesimo messaggio che tenta di rassicurarti. Sappiamo entrambe che c’è menzogna, anche mentre mi dici che sai che riuscirò a stare meglio. Un processo dal quale ti tiri fuori. Ma, forse, è giusto che sia così. Eccosissia.

Giulia dice che in qualche maniera è colpa mia. Nella mia ostinazione narcisistica di volere sedurre l’altro. Sedurre te che sfuggi, cosa a cui non sei abituata, mi dice, aggiunge, sorridendo mentre non sorrido. Dice, che poiché tu ti assenti dal mio amore, mi rendi insicura e ostinata a ottenerlo. La riduzione del nostro amore a una sfida non mi piace. Giulia non ha ragione. Una cosa però è vera: il meccanismo. C’è forse, ci potrebbe essere, un meccanismo malato. Forse, le dico, è una questione di amore mancato, di seduzione dell’assenzadi speranza nel potere essere vista intera tutta. Di dimostrazione (a me stessa?) che io possa essere amata. Intera tutta. Figlia, tu, puoi essere amata.

C’è però il meccanismo. C’è il vuoto. C’è la consapevolezza.
Sono figlia di un padre morto a metà (che continua a divorarmi).

Iοίην (Ioien)
che io possa andare oltre
Lo scrivo su uno dei muri della settima casa vuota con le finestre spalancate che guardano l’orizzonte vuoto con le porte mancanti con i quadri portati via e i quadrati gialli dell’assenza sui muri con i segni di passi sulla polvere depositata e depositaria sul pavimento di quel passaggio e sottrazione di oggetti trascinati via (dal padre).

Vorrei fossi qui.
Lo scrivo, nella lettera a me stessa.

aggiornamento. Lei ha bussato. Mi ha invitata. Ha preso lo scudo, lo ha abbassato con le sue mani sottili e grandi. Le ha poggiate sui miei occhi. Mi ha teneramente baciata. Lei ha bussato. Mi ha preso la mano e mi ha portata via. Via non so dove. Ma è venuta, ha bussato e mi ha preso il cuore.




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