Giardini pubblici Racconto di Marisa Salabelle. (Parte prima)

La mattina, io mi alzo sempre presto: le cinque e mezzo, le sei. Quando è inverno, inutile dirlo, è notte profonda. A volte piove, oppure tira un vento gelido e scopre, strappando via le nuvole, le stelle, immobili, ghiacciate in cima al cielo. Io mi soffio sulle mani, che sono grosse e rosse, un po’ violacee: le dita sono intorpidite, le muovo a fatica, sembrano serpentelli o piante grasse. Sbuffando, ancora in pigiama scendo, badando di non scivolare per le scale strette e viscide, in cucina, dove mia moglie mi ha preceduto e ha messo su il bollitore per il tè. La stanza è grande, con le pareti annerite dal fumo, un grande tavolo al centro e nove sedie, tante quanti siamo noi: io, mia moglie, mio padre, che è infermo e sta sempre seduto là, su quella sedia coi braccioli, e certe volte pure ci dorme, e  i nostri sei figli. Mo’hamed, il grande, ha già vent’anni e lavora in un cantiere; le femmine sono due, Farida e Mariam, già grandi e svelte, belle tutt’e due, e poi ci sono i ragazzi, uno dietro l’altro: Omar è il piccolo, ha otto anni e fa la seconda, un tipo sveglio, date retta a me.

Mentre bevo il tè bollente osservo mia moglie, che non osa sedersi: la sua figura è tozza, sul davanti sporge il ventre gonfio che quasi senza accorgersene liscia e carezza con le due mani; di sotto la camicia si intravede il seno, ampio e cascante; i capelli, che durante il giorno porta legati in una stretta crocchia, ora pendono radi ai lati del viso, e il viso è gonfio, arrossato, ornato da peli che spuntano qua e là, duri come setole. Che scempio, penso mentre la guardo, che disastro! Mia moglie, mi sembra che sia in disfacimento, come se i vermi già di dentro avessero cominciato a mangiarsela. E dire che al mio paese, quando me la sono presa, la sua figura la faceva: che fossero gli abiti tradizionali, che l’avvolgevano senza rivelarne le forme, o il velo che coprendo la chioma metteva in risalto lo splendore degli occhi, o forse il mistero che l’avvolgeva, che mi faceva presagire chissà quali bellezze… Io, poi, non ero certo da meno: non molto alto, è vero, ma forte, robusto, un collo largo così; scuro di pelle e di occhi neri, scintillanti e furbi, le sopracciglia folte, i capelli nerissimi che parevano scolpiti sulla fronte… Non guardatemi ora, che sono un po’ ingrassato anch’io, e mani e viso hanno preso un colorito paonazzo: è la circolazione, dice il dottore, e di andarci piano con quel bicchiere di vino, e dire che se fossi rimasto al mio paese il vizio di bere non l’avrei certo preso. Occidente corrotto!

Certo, le donne di qui… be’, è un’altra cosa. Più alte, più esili, aggraziate, più chiare di carnato e di capelli, eleganti, ben tenute, fini! Certe volte penso che mi meriterei di più. Mia moglie – è una brava donna. I sacrifici che ha dovuto fare, li so soltanto io. Mia moglie va lasciata stare, che Allah l’abbia in gloria. Ma quando la confronto con le altre, con quelle che passano per strada, e sulle quali poso i miei sguardi colpevoli: gambe svelte, nervose, gonne corte e strette, camicette leggere sotto alle quali si intuisce un seno minuto, bianco come il latte… non è un caso se nella loro saggezza i nostri leader religiosi impongono alle donne di celare le loro forme sotto abiti castigatissimi e di nascondere agli estranei i tratti del loro volto. Le donne di qui si mostrano, invece, e inducono noi uomini in tentazione.

Dopo aver bevuto il mio tè, sospirando e sbuffando salgo le scale e torno in camera a vestirmi: indosso i panni da lavoro e una vecchia giacca a vento marrone, unta e nera ai polsi e sul collo; d’inverno infilo un cappelluccio di lana, ormai ispessito da tanta umidità che ha preso e tante lavature; sulle mani metto sempre, estate e inverno, grossi guanti di pelle gialliccia, ormai screpolati e induriti ma ancora buoni al loro uso. Parto sul mio vecchio motorino e in pochi minuti arrivo ai giardini pubblici; vicino ai gabinetti c’è un casottino di legno dove lascio il motorino e trovo la mia carriola con gli attrezzi. Il mio lavoro infatti consiste nel ripulire i giardini da cima a fondo, vialetti e prati, sotto le panchine e in mezzo ai tavolini del bar, vuotare i bidoni delle immondizie, raccogliere e ammonticchiare da una parte le foglie secche e caricarle sul mio carretto. È un lavoraccio, sempre all’aperto: solo d’estate va abbastanza bene, che a quell’ora generalmente l’aria è abbastanza fresca, anche se capitano talvolta, a luglio inoltrato, certe mattine che sono già torride persino alle sei e mezzo, le sette; oppure quando il cielo è pesante e minaccia pioggia e la canottiera si appiccica alla pelle dal sudore. Ma nel pieno dell’inverno arrivo ai giardini che albeggia appena: spesso vien giù una pioggerellina sottile che penetra dentro i vestiti e dà i brividi alla pelle. In quei giorni, quando mi tocca starmene un paio d’ore a succhiarmi tutta quell’acqua che calma calma e senza posa non la smette di venire, e trascino i piedi in mezzo alle foglie marce e al fango che si attacca sotto le scarpe, mi sembra che anch’io stia marcendo insieme alle foglie, mi sembra che un albero cavo, fradicio e putrescente, mi sia cresciuto dentro il corpo. Sia come sia, comincio: con la ramazza spazzo via i rifiuti più grossi ma devo stare attento a non rimuovere il ghiaino dei sentieri, perciò il più delle volte mi servo delle mani. Lattine, pacchetti vuoti di sigarette, bicchierini di gelato tutti appiccicosi, cucchiaini, cannucce, fazzoletti di carta, e menomale che ho i guanti, che tante volte incappo in un vetro tagliente o nell’ago di una siringa abbandonata da qualche tossico. Verso le otto sono a buon punto: i rifiuti li ho già portati via e devo solo mettere sacchetti nuovi ai bidoni e sarchiare le foglie cadute sui prati e sui sentieri. Allora mi concedo un piccolo intervallo, mi siedo a gambe larghe su una panchina e tiro fuori dalla tasca del giaccone il cartoccio che mi sono portato da casa, due spesse fette di pane ripiene di mortadella o di salame: sì, lo confesso, anche alla carne dell’immondo maiale mi sono convertito, che Allah mi perdoni. Nell’altra tasca ho il termos con il tè, che d’inverno mi riscalda e mi rinfresca d’estate.

Ecco, era una mattina così, sarà stato il mese di ottobre, i primi di novembre. Non faceva molto freddo, il cielo era grigio e basso, una nebbia leggera fumava su dal terreno e senza impedire la vista dava a tutte le cose una tenue velatura, come se alberi e cespugli, le panchine, il chiosco del bar con i suoi tavolini di ferro laccati di bianco e di giallo, ogni cosa fosse avvolta in un foglio di carta velina. Io me ne stavo seduto su una panchina, il carretto appoggiato da una parte, a masticare la mia colazione: a quell’ora i giardini sono deserti, li attraversa a passo svelto qualche impiegato in giacca e cravatta, con la testa china sul display del suo cellulare, qualche donna con la borsa della spesa, qualche mamma che accompagna a scuola il suo bambino. Ecco difatti profilarsi da lontano una figuretta, dapprima un puntino tra gli alberi, appena visibile, incartata com’era da quel velo di nebbia, ma poi, passo dopo passo, sempre più distinguibile e vicina. È una donna, o forse una ragazza: passo dopo passo si rivelano ai miei occhi la vita sottile, stretta da una cintura, la gonna che ondeggia lieve introno ai ginocchi, le gambe snelle, le scarpe con appena un po’ di tacco. Sopra, tutto è nascosto da un piumino rigonfio dal quale sbuca soltanto il viso, tondo come una piccola mela, circondato da una massa di ricci castani. Perfetta, indescrivibile, cammina spedita con la sua cartelletta di plastica dura: sembra una studentessa o forse è una piccola segretaria, sembra una ragazza della pubblicità, di quelle che a passo  di danza, con un vago sorriso disegnato sulle labbra, reclamizzano un paio di calze, un deodorante o uno shampoo. Dove le vanno a pescare, mi dicevo quando la sera, seduto a tavola, le vedevo passare attraverso lo schermo, con le camicette semiaperte sul seno e le gonne svolazzanti sulle gambe, dove le vanno a pescare, che a me non è concesso incontrarne mai, di donne così, fresche come la polpa delle nocciole nascosta nel guscio ancora verde, con quei capelli che danzano intorno al viso, con quel sorriso dolce e appena un po’ malizioso, con quel passo leggero che sembra sfiorare a malapena il terreno. Dove le vanno a pescare, ed eccone qui una, così giovane che pare una bambina, con quei piedini che quasi non toccano terra e quel sorriso misterioso rivolto a tutti e a nessuno. Mi accomodai meglio sulla panchina, divaricai ancor di più le gambe, aguzzai lo sguardo, beandomi nella contemplazione della figurina ormai distante solo pochi passi. E proprio in quel momento accadde l’impensabile, che la bella si volse e con un sorriso appena vagante sulle labbra accennò con lo sguardo nella mia direzione, mentre le labbra si schiudevano mormorando qualche breve parola che non poteva essere che di saluto. Che potevo fare? Sfoderai il mio miglior sorriso, maledicendo in cuor mi la carie che mi annerisce i denti, e sorpreso e lusingato risposi al saluto. La ragazza passò oltre e io mi spostai sulla panchina per seguirla con lo sguardo fino  a che non fosse ridiventata un puntolino tra gli alberi, e scuotendo la testa sorridevo compiaciuto tra me e me. Più volte, nel corso della giornata, mi tornò in mente la graziosa apparizione: la sottile figuretta in mezzo agli alberi, la gonna ondeggiante sui ginocchi appena arrotondati, la danza dei capelli sulle spalle e intorno al viso e soprattutto il sorriso: quel sorriso così vago e misterioso che a un certo punto, come sospinto da un venticello bizzarro, si era posato proprio su di me.

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