“NON AMORE” TI SCRIVO by Telleena Sbacchi

Forse tutto è così, crediamo che attorno ci siano creature simili a noi e invece non c’è che gelo, pietre che parlano una lingua straniera, stiamo per salutare l’amico ma il braccio ricade inerte, il sorriso si spegne, perché ci accorgiamo di essere completamente soli.
– Dino Buzzati, da “Il deserto dei tartari”

Ti scrivo questa lettera ieri, ma te la darò domani.
Il tempo è così sottile che rischia di spezzarsi come i nostri corpi.
Un rocchetto vuoto. Il filo è rimasto con l’ago conficcato nel cuore.
Se porto le dita sul petto faccio fatica.
Il plesso solare è un pettine con denti rotti.
Anche adesso. Senti il respiro…? Faccio Fatica.
Mi perdo tra carte di vorrei. Tra cambiali in cui ti do tempo.
“Dammi tempo. Saprò amarti come chiedi.”
Ma poi come tutti dimentichi, svoltato l’angolo del cuore.
Questa inquietudine costruita su un castello di assenze.
Il cuore ha girato la sua punta e non può contenerci entrambe.
È diventata assenza. Come un amore comune.
Di quelli che non si dicono “ti amo” perché è banale.
Ma, addio lo pronunciano come tutti gli altri.
Addio.
Così ti saluto mio ‘non amore’.

Pensavamo fosse un modo divertente di contenerci.
“Tu sei il mio non amore” ci dicevamo.
E forse il problema è vivere ricercando qualcosa di straordinario.
(Mi capita di sognare la noia tra di noi.)
Nel pensare che l’amore l’avremmo imparato.
Noi che facciamo fatica a far parlare il battito.
Pensavamo che fosse questo a farci inciampare la lingua.
Non siamo brave a dire quello che il cuore (forse) vorrebbe dire.
Amore… Amore… Amore…
Mai detto. Nessuna delle due conosce la voce dell’altra
Non in queste parole.
Forse la fine la sapevamo già.
Abbiamo iniziato da una negazione e a quella torniamo.
Esco dal tuo cuore vedetta che non ha posto per me.
Sono un doppio ingombrante
Che brucia in te che non bruci.
Due giorni fa mi hai detto; “Ti amo stupida”
No, non lo hai detto. Lo hai scritto.
Che voce ha la parola scritta?
Le mie lacrime fanno più rumore.
Un rumore sordo e dimenticato perché ho smesso di piangere
Anni fa.
Quando ho sotterrato mio padre+, mia madre+ e il mio cane.
Quando gli ho lasciato un pezzo del cuore sinistro e qualcosa del destro.
E anche un ventricolo.
Che a volte fanno male gli occhi di vetro.
Perché quando perdi veramente qualcuno.
Di quella perdita che se scavi ti ritrovi solo terra e vermi e silenzio tra le mani.
Ti pare stupido un addio di cartone.
Quello dei “non amore”.
Il cuore è un muscolo che mi mastica.
Ti avevo chiesto di perdonare le mie ferite.
Di aprirgli la porta.
Ci siamo scambiate gli aghi e poi qui poi qui ancora qui, ci siamo dette.
Di risalire la china, di ricucire i buchi, nonostante le navicelle di sangue quando sbagliando pizzicavamo la pelle.
Io che non so dire Ti amo (e non te l’ho mai detto).
Io che non so dire niente.
Io che vorrei dire tutto.
E te lo dico ieri.

E te lo dico ieri. In una busta chiusa ci metto il non amore. La lacrima. L’ultimo sorriso insieme (in cui nessuno delle due ride). In cui nessuno delle due si guarda. Nella piazza del centro storico ci muoviamo in fila indiana. Tu mi precedi e corri veloce da tutto, anche da me. Non c’è Orfeo e neppure Euridice, potrei sparire e neppure te ne accorgeresti. C’è la musica lontana di tavole in festa. “Andiamo altrove, qui fa troppo rumore”, mi dici. A me importa stare solo con te. Mi guardo intorno, e penso che in quel bailamme che tu non sopporti io potrei raccogliere volti, sfumature e storie per biografie inventate. A me importa stare sola con te. Ci allontaniamo con i pacchi del cibo fumante alla volta della piazza deserta un centinaio di metri più in là. Diventa sempre più lontana… la voce dei ragazzi che cantano una canzone stonata di De Andrè. Il fumo del cibo di strada che ti impuzza gli abiti è lontano. Sbuffa nel cielo avvolto nelle voci straniere, giovani e spregiudicate.
E io canticchio la canzone di quei giovani in festa.
E provo a guardarti.
E provo a sentirmi a casa.
E provo.

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