Immaginare / Memoria

By Gianluca Mantoani

Mia nonna materna, quando inizio a ricordarla, aveva fra i sessanta e i settant’anni, era bassa e rotondetta ed era ospite di una struttura per anziani in un paesino di montagna del Canavese, dalle parti delle valli Orco e Soana. Si andava a trovarla ogni tanto, dapprima con la Fiat 500 e poi, più comodamente, col 128 blu, il cui odore degli interni mi faceva stare male e invariabilmente vomitavo poco prima dell’arrivo alla seconda curva in salita dopo Pont Canavese. Il viaggio da Torino durava, mi sembra, qualcosa più di un ora e in genere si faceva d’estate o tarda primavera, organizzando picnic memorabili, col tavolo e le sedie pieghevoli, il frigo portatile, i panetti refrigeranti e di solito anche una bombola a gas per fare il caffè. C’era una fontana lavatoio sotto una tettoia, al termine di una strada avventurosa e stretta che finiva in un ampio slargo di cemento, già vecchio. Al centro dello slargo svettava un palo alto e scuro che a sentire mia nonna serviva durante la festa della frazione come “albero della cuccagna”. Mio padre aveva il compito di sistemare in modo stabile il tavolo, le sedie e mettere il vino al fresco nella fontana e come acqua si beveva quella fredda di montagna del lavatoio. Mia madre, di solito, aveva fatto le crocchette di riso e questo era già di per sé un gran motivo di festa e di desiderio silenzioso, fin dal mattino, quando il profumo si diffondeva per casa stravincendo su ogni possibile sentore di caffelatte e di colazione.

C’erano, vicino a quello slargo, un pilone votivo e due castagni che facevano molta ombra e mulattiere che partivano da lì e proseguivano verso monte fra i rododendri e i cespugli di mirtillo verso qualche parte remota che io sognavo di raggiungere e ho cominciato lì, mi pare, a subire il fascino delle strade che non si sa dove portino. A volte spuntavano delle capre e c’erano pendii ripidi che preoccupavano mia madre (mio padre no, lui riposava e ascoltava la partita per radio) e muri di case in pietra e massi mezzi coperti fra l’erba alta e le infide ortiche. Mia nonna usava conservare sotto il materasso delle merendine per quando andavamo a trovarla, per regalarle a me, a mia sorella, ai miei cugini. Quando ci vedeva il suo primo gesto era sempre un bacio multiplo in un abbraccio soffocante, mentre il secondo era la consegna della merendina secca e sbriciolata che tirava fuori dalle tasche del suo “grembiale”. Non sono mai riuscito davvero a mangiarne una, ma le aspettavo comunque e le ricordo ancora, sia le merendine che le stranezze della nonna, come parte integrante della montagna, dei declivi, delle fontane fredde, delle lucertole, delle grandi formiche nere e della sorprendente fontana lavatoio con dentro il bottiglione di vino rosso e qualche volta un anguria.

Altre volte veniva invece lei a Torino, la nonna, per stare con noi nell’alloggio al nono piano di un condominio fine anni ’60, al fondo di corso Sebastopoli.  Passavamo qualche giorno insieme, finché poteva sopportare la rottura delle sue abitudini e la convivenza. Allora mia madre, per non farla annoiare, le affidava il rammendo di ogni cosa bucata e rammendabile e poi, finiti i buchi, si passava a progetti più complessi come i lavori a maglia, le calze della befana multicolori, i gilet, le sciarpe e ancora gli infiniti quadrati di lana colorata che poi venivano assemblati in coperte e copertine. Ho ancora ben presente lo sguardo di mia nonna, alzarsi in tralice da sopra le lenti degli occhiali, mentre fra le dita le scorreva il filo di lana e dalla bocca le uscivano filastrocche improvvise, strofe pubblicitarie degli anni 30 e ’40, canzoncine mai più sentite e a volte racconti brevi, improvvisi e cruenti, come quello dell’esercito che li aveva resi italiani col lanciafiamme, in Valsugana, nel 1916, oppure qualche lontana immagine di suo padre Pietro mentre le insegnava a sistemare le trappole per catturare gli uccelli nel bosco dietro casa.

Poi scende un buio opaco di memorie ossidate dal tempo. A fatica affiorano come ghiacci i frammenti scomposti, le vite faticose, i ricordi bloccati dal pudore, dalla vergogna di mettere in mostra la vulnerabile appartenenza ad una classe di vinti, mandati in guerra, sfollati, andati altrove. Questo buio si compone di ricordi che forse è ancora possibile intrecciare, torcere e filare, farne filo e fibra da tessere, scorrere fra nuove dita, intrecciare di parole, rammendare buchi. La memoria personale è fibra di un tessuto più grande, filo di una storia collettiva che ci viene strappato per produrre silenzi e tuttavia non scompare, ancora può trovare mani che rammendano, voci che raccontano, fili che coprono i buchi e ascolto che apre nella luce la storia di uomini e donne altrimenti mute, muratori dall’appetito prodigioso e operaie vestite di tessuti poveri, stoffe stampate con i fiori piccoli, le mani grosse, da lavoro, quasi nascoste; i capelli raccolti sopra gli occhi assenti. In piedi, senza sorriso, contro lo sfondo di un tessuto nero.

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