TESI DI LAUREA (Parte I) Racconto di Marisa Salabelle

Nel febbraio del 1977 Edoardo, studente fuori corso della facoltà di lettere e filosofia, in seguito all’ennesima discussione con i genitori che lo accusavano di essere un perdigiorno, di passare ore e ore a ciondolare per il Corso, senza concludere nulla, in compagnia di quattro o cinque sfaticati pari a lui; di rientrare troppo tardi la sera e di dormire troppo a lungo la mattina, e tutto ciò benché egli avesse ventotto anni ormai e la sua dignità da difendere, decise di darsi finalmente una mossa: di preparare alla bell’e meglio quei pochi esami che gli rimanevano e, nel frattempo, di andare a parlare col professore di storia moderna allo scopo di farsi assegnare la tesi.

Era, questo professore, un tipo stravagante: giovane, certo non toccava i quarant’anni; aveva capelli lunghi che teneva raccolti con un elastico; portava jeans rattoppati e stinti, un foulard di seta indiana buttato sulle spalle e buffi occhiali tondi cerchiati di metallo: a chi lo vedeva arrivare su una vecchia bicicletta nera coi freni a bacchetta, o aggirarsi per i corridoi della facoltà con un pacco di libri sotto il braccio, sembrava piuttosto uno studente un po’ più anziano degli altri che un docente. E a dire il vero gli era capitato più di una volta di sentirsi chiedere che anno faceva, a che seminario era iscritto e se anche lui doveva sostenere l’esame di filologia romanza, stamattina. Un professore come quello non s’era mai visto, all’Istituto di Storia: la maggior parte dei docenti aveva un’aria così austera, un linguaggio così forbito, un atteggiamento così altezzoso: questo era il giudizio di Edoardo ma, verosimilmente, anche di molti altri, visto che il corso di storia moderna tenuto dal bizzarro personaggio risultava tra i più affollati. Attratti dal suo aspetto e dalla fama che aveva, di essere indulgente e comprensivo, molti gli rivolgevano le più strane richieste.

La mattina in cui Edoardo andò a chiedergli la tesi, parecchi altri studenti, fuori corso quanto e più di lui, erano in attesa davanti alla stanza del professore. Questi arrivò infine accompagnato da Profumone, un borsista odioso a tutti per la sua aria di grande sussiego e per le zaffate di colonia che spandeva al suo passaggio e che gli avevano meritato il soprannome con cui era universalmente noto. Non appena la stanzetta – poco più di uno sgabuzzino, evidentemente proporzionata alla considerazione in cui l’eccentrico docente era tenuto dai baroni della facoltà – fu aperta, vi si precipitarono dentro tutti i postulanti, affollandola ben oltre il limite della sua modesta capienza. Seduto sull’angolo di una scrivania, con il gomito di un collega puntato sotto un’ascella e il notes di un altro a pochi millimetri dal naso, Edoardo aspettò pazientemente il suo turno.

Per prima toccava ad una ragazza magra come un attaccapanni, che non sarebbe stata bruttaccia se il suo naso non avesse somigliato in modo preoccupante a quello di Dante Alighieri, il Sommo Poeta.

«Lei mi deve dare una tesi sui Beatles», disse la ragazza.

Il professore le rivolse uno sguardo perplesso.

«Signorina», cominciò  «io insegno Storia Moderna: per la tesi che vuol fare, dovrebbe rivolgersi a un docente di Storia dello Spettacolo».

«Se potessi fare una tesi di Storia dello Spettacolo, la farei», disse la ragazza con una grande pazienza nella voce e molto compatimento nello sguardo che rivolse al professore, «ma il mio piano di studi mi consente di laurearmi solo in Storia Moderna. Vede?», continuò sventolando il libretto sotto il naso del professore e  di tutti i presenti. «Ho fatto con lei tre seminari!»

«In tal caso, ehm, saremo costretti a rinunciare alla tesi sui Beatles…»

«Non se ne parla nemmeno! Voi professori siete tutti uguali! Anche se lei si lega i capelli con l’elastico e si mette le toppe ai gomiti, mi dispiace dirlo, è un fascista come tutti gli altri! E inoltre è un ignorante! Un incompetente! Non si rende conto dell’importanza che hanno avuto i Beatles nell’evoluzione del gusto, del costume; nella presa di coscienza delle masse…»

«Me ne rendo conto perfettamente, signorina, ma si dà il caso che io, io insegni Storia moderna; e la Storia Moderna, secondo la ripartizione tradizionale – per quanto questa possa ritenersi sorpassata, attualmente: ma comunque, per comodità – secondo la ripartizione tradizionale la Storia Moderna abbraccia i secoli che vanno dalla scoperta dell’America alla Rivoluzione Francese».

«La ripartizione tradizionale, eh?»: la ragazza scosse la testa in segno di commiserazione e di supremo disprezzo. «Siete proprio tutti uguali, con le vostre tradizioni e i vostri tabù. Ma ve ne rendete conto? Questo qui non ha capito niente! Questo qui parla ancora della scoperta dell’America!»

Così dicendo volse le spalle al docente e facendosi strada a forza di spintoni e pestate di piedi raggiunse l’uscita.

Il secondo postulante era un giovane dall’aspetto malaticcio, coi capelli rossastri che andavano diradandosi e gli occhi di un celeste acquoso. Lui la tesi la stava già facendo e ne portava gli ultimi capitoli in visione al professore: sapeva di non aver fatto granché, ma lo pregava di essere comprensivo: gli aveva parlato della sua situazione, era sposato, aveva due bambini ed ora sua moglie aspettava il terzo; vivevano in un monolocale, dormendo tutti nello stesso letto, e nondimeno l’affitto si portava via gran parte di quello che  lui guadagnava lavando i piatti in un ristorante; aveva bisogno di laurearsi al più presto…

Poi fu la volta di due ilari studentesse, che durante tutto il seminario si erano distinte per la capacità che avevano di chiacchierare e ridere praticamente senza interruzione e che ora venivano a prendersi una lavata di capo per la loro relazione sulla transizione dal Feudalesimo al Capitalismo.

«Guardate qua! Una sfilza di sciocchezze! Banalità! Le mie lezioni spiattellate pari pari, senza un minimo di rielaborazione, senza la minima traccia…»

Le studentesse si guardarono e per poco non gli scappò da ridere in faccia al professore: era vero, ci avevano lavorato proprio pochino, a quella relazione, si erano limitate a poco più che una riscrittura degli appunti presi a lezione: ma lui come aveva fatto ad accorgersene? Stesero la mano per riprendersi la cartellina che intanto il docente, innervosito, aveva sbattuto sulla cattedra, provocando la fuoriuscita dei fogli che conteneva:

«Guardate qua! Ci sono perfino errori di ortografia, e certe parole incomprensibili, certi pasticci…»

«La colpa è tua», sussurrò una delle due all’orecchio dell’amica, «te l’avevo detto di farla battere a qualcun altro», e intanto aveva ripreso possesso dell’indegno dattiloscritto.

«Ma che fa? Vuol ritirare la relazione?», si meravigliò il docente, improvvisamente ammansito.

«Dal momento che la dobbiamo rifare, tanto vale che ci riprendiamo questa».

«Ma no, che bisogno c’è. Non vorrete perder tempo a rifarla! Più di ventisette, però, non vi posso dare. Che diavolo! Volete tutti trenta! Guardate che ventisette è un buon voto, in fin dei conti. Non vi rovina la media, non vi compromette niente. Questa mania dei trenta!»

Ottenuto il voto e recuperata la loro allegria, le due ragazze si allontanarono bisbigliando e finalmente fu il turno di Edoardo.

Lui ce l’aveva già una mezza idea del lavoro che voleva fare: sapeva che il professore assegnava volentieri lavori di ricerca su materiale d’archivio e conosceva alcuni studenti che avevano fatto tesi interessanti utilizzando atti processuali, registri parrocchiali, libri contabili di istituti religiosi e cose simili. Be’, lui l’estate scorsa era stato per un paio di settimane nella casa di campagna della sua famiglia, una casa molto antica, forse le fondamenta risalivano al tardo impero romano; anche la famiglia era antica, ma non fino a questo punto. I suoi antenati ci avevano abitato per secoli, a Pratello, ora però la sua famiglia, e lui di conseguenza, viveva in città e la casa di campagna rimaneva vuota per la maggior parte dell’anno: ma d’estate si usava ancora andarci, perché il luogo era fresco, gradevole, e insomma: per far contenta sua madre, una gran rompicoglioni! qualche volta  ci andava anche lui. L’anno passato, dunque, annoiato a morte, s’era messo con suo cugino a riordinare la soffitta, e in un baule tutto tarlato aveva ritrovato un mucchio di scartoffie, vecchie lettere, pagelle di scuola, quaderni, fotografie: c’erano anche delle cose vecchie davvero, come certi libri di preghiere e un manuale del confessore della fine del Settecento, un ricettario tutto scritto a mano e un manoscritto voluminoso intitolato «Dizionario enciclopedico degli Odori»: sì, una specie di enciclopedia di tutti gli odori che si possono sentire in casa e fuori e persino in chiesa: l’opera di un folle, redatta con una precisione maniacale: e difatti sua madre, cui aveva mostrato il volume, ricordava di aver sentito parlare di un lontano pro-prozio, vissuto cent’anni prima, che aveva dedicato la vita a collezionare  e descrivere odori, pare in seguito a un trauma, causato dal suicidio del parroco, di cui era amico; ma non di questo Edoardo voleva parlare al professore, bensì del reperimento di un diario, manoscritto anch’esso, che risaliva addirittura alla seconda metà del Cinquecento; un fascicolo un po’ malandato, s’intende, con le pagine ingiallite dai bordi smangiati, sulle quali l’inchiostro usato dall’autore – certo Agnolo di Lorenzo Brunaldeschi, un lontanissimo antenato – era piuttosto sbiadito ma, tutto sommato, ancora leggibile.

Il diario – Edoardo l’aveva decifrato solo in parte, la grafia dell’avo gli causava qualche difficoltà – si presentava come una specie di giornale di famiglia, destinato a registrare gli avvenimenti più importanti, come nascite, morti, matrimoni; vi si trovava anche un abbozzo di contabilità domestica, con l’annotazione di acquisti fatti in occasione di qualche gita in città e di guadagni tratti dalla vendita di certi prodotti agricoli; vi erano trascritte le liste dei cibi serviti in occasione di banchetti natalizi o pasquali ovvero di battesimi o matrimoni. Non mancavano qua e là commenti e considerazioni personali, ma le pagine veramente interessanti erano quelle che riguardavano le vicende di Lorenzino, figlio quintogenito del vecchio Agnolo, che, a quanto pare, aveva fatto parte di una banda di malfattori, in compagnia dei quali s’era sbizzarrito in ogni sorta di nefandezze, collezionando svariati processi e feroci condanne in contumacia, fino a che le guardie di Sua Altezza Serenissima il Granduca di Toscana non l’avevano arrestato e finalmente impiccato, l’anno del Signore 1591.

Così, ottenuto il consenso del professore e ricevuti da lui opportuni consigli e indicazioni di metodo, nonché una nutrita bibliografia cui fare riferimento, Edoardo si mise al lavoro. Prima di tutto si fece uno schema della famiglia, tanto per capirci qualcosa fra tutti quegli Agnoli, Pavoli e Lorenzi, e tutte quelle Giulie, Ghite e Benedette. Dunque, Agnolo di Lorenzo aveva sposato nel 1553 Giulia di Pavolo Migliorati: di figli ne avevano avuti un bel po’, e fitti come sardine in scatola, ma parecchi glien’erano morti, e il bravo capofamiglia aveva annotato per ciascuno la causa del decesso: di convulsioni, a soli sei mesi di età, era morta Caterina, la primogenita, seguita da due Lorenzi consecutivi, entrambi afflitti da un «languore» che li aveva in breve tempo portati a «finire la loro vita miseramente». Le cose avevano cominciato a mettersi meglio, per gli sfortunati genitori, solo col quarto nato, una femmina, chiamata, in segno augurale, Benedetta: questa era sopravvissuta,  e come lei pure Lorenzo, terzo di questo nome cui evidentemente non si era voluto rinunciare: e chi la dura la vince, perché questo Lorenzo qui, meglio noto in famiglia come Lorenzino, se l’era cavata discretamente, superando una crisi di febbri altissime che l’avevano assalito, con brividi e tremori e perdita della conoscenza, all’età di cinque anni, salvo poi fare la fine che sappiamo, nel 1591, a trentuno anni di età. C’erano stati ancora Pavolo, nato e morto lo stesso giorno, Giovannella, che era gobba, poverina, e Gherardo, che a dieci anni s’era ferito un piede con un ferro rugginoso, e il piede gli era andato in cancrena, e in poche parole era morto anche lui.

Accasciato sotto il peso dei molti lutti familiari, cui si aggiunse la morte prematura della moglie, mancata nel 1567, a soli trentadue anni, in seguito a un aborto, Agnolo cercò conforto nella fede, dichiarandosi sottomesso alla volontà di Dio e citando le parole di Nostro Signore, io sono la resurrezione e la vita. D’altra parte, non perdendo il suo senso pratico, annotava accanto ad ogni decesso le spese relative ai funerali: tre lire per la cassa, dieci per il prete, altre venti per cinque messe da celebrarsi in cinque domeniche consecutive.

Buon cristiano, Agnolo frequentava regolarmente la chiesa, e non era bastato a fargli perdere la fede l’episodio riportato nella carta 72 del suo diario, dove si leggeva di «Fra Vincentio da Capugnano, dell’ordine di San Domenico», venuto a predicare la Quaresima, che nel pomeriggio del 7 aprile 1581 era stato sorpreso da Fello di Niccolò Baldi, rincasato molto prima del solito a causa di un improvviso malessere – o forse per un sospetto che da qualche giorno lo tormentava: sorpreso, dunque, «nel mezzo della Bettina e dell’Angelica di Niccolò», rispettivamente moglie e sorella del povero Fello: «anchora in camiscia, e havendo fatto quanto havea voluto con dette donne». Scandalo di tutto il popolo di Pratello e delle terre vicine, fuga di Fra Vincentio da Capugnano, ignominia delle due donne malcostumate e del povero Fello, due volte becco; Messa riparatrice celebrata nientemeno che dall’Arciprete della Cattedrale, venuto in gran pompa dalla città con un codazzo di chierichetti, e relativa raccolta di elemosine, riparatrici anche queste. Pure il buon Agnolo aveva partecipato alla riparazione con una cospicua somma (lire ventitré, soldi uno, denari otto): c’è da dire anzi che non fu, questa, la prima né l’ultima sua elargizione: in questo modo, come molti cristiani benestanti di quel tempo, s’ingegnava di conciliare la ricchezza con la santità, nella speranza di riuscire a passare da quella benedetta cruna dell’ago. Teneva un conto separato «di Messer Domineddio» e aveva costruito nel giardino di casa sua «uno altaruzzo», affinché i bambini potessero celebrarvi piccole Messe e Funzioni e così, giocando, prendessero l’abitudine alla pratica religiosa: lui stesso, la sera, intonava le preghiere cui tutta la famiglia era tenuta a partecipare, compreso il personale domestico; e la domenica tutti quanti si recavano in chiesa per assistere alla Santa Messa. Non è il caso di dubitare, ovviamente, della partecipazione alle frequenti processioni che si svolgevano, a partire dalla chiesa di Pratello, e che avevano come meta la parrocchia non lontana di San Bastiano, o quella di San Michele, o addirittura il Santuario di Santa Maria dell’Ovo, il cui nome era dovuto a un episodio particolarmente edificante che si era verificato non meno di cent’anni prima. Pare che lungo una di quelle stradette che s’arrampicano ritte su per la montagna la Madonna fosse apparsa un bel giorno a due anziane contadine, una delle quali per l’emozione aveva fatto cadere il cestino dell’ova che andava a vendere sulla piazza di un villaggio vicino: tutte le uova s’erano rotte, e già la meschina si tapinava, e cominciava a sospettare che si trattasse di un’apparizione del Diavolo, giacché non s’era mai sentito dire che la Madonna facesse dispetti alle povere contadine, quando in fondo al cestino aveva scorto un luccichio e, frugando tra la paglia che lo rivestiva, aveva trovato un uovo d’oro massiccio: la voce si era sparsa in giro, tra l’entusiasmo generale, e a furor di popolo era stata decisa l’edificazione del santuario, e quella contrada sperduta aveva goduto per un certo periodo di quello che con un’espressione moderna si chiamerebbe l’indotto: il santuario divenne infatti meta di pellegrinaggi, si dovettero aprire locande, si tennero fiere in quella località dove fino ad allora non era mai capitato un viaggiatore, uno; poi, col passare del tempo, altri prodigi erano avvenuti qua e là, altre apparizioni avevano sconvolto pacifici villaggi, altri santuari erano stati edificati, le fiere si erano spostate altrove. Santa Maria dell’Ovo era passato di moda, era rimasto abbandonato, aveva cominciato a decadere: ora non ne restano che le rovine, e la poca gente che vive ancora in quei paraggi si stringe nelle spalle, non sa nemmeno spiegare quel nome stravagante. Meno male che c’è rimasto il diario di Agnolo Brunaldeschi!

Continuerà venerdì prossimo…

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