All’Ingegnere by Federico Cinti

Antichità dell’attimo, ritorni

lento, eppure affrettandoti, sul muto

limitare dei secoli e dei giorni.

In questo, non in altro, è l’assoluto,

nello scorrere rapido d’un fiume

giunto placido all’ultimo saluto.

Eterno è il tempo. Al lampo d’un barlume

galleggia il senso naufrago ormai sazio:

nulla si perde, tutto si riassume.

Era un pallido sogno anche lo spazio

raffigurato, un piano cartesiano

emerso tra le trame d’uno strazio.

L’occhio discerne un universo vano,

un’ombra in mezzo alle ombre sulla via;

cala il silenzio al cenno d’una mano

assorta: resta solo la poesia.

inesausto il dialogo continua, anche a distanza, seppure virtuale. Ci si è pian piano abituati a guardare al di là dello specchio, d’acqua o di vetro poco importa, oltre i cristalli liquidi, tanto che non sappiamo più «chi va o chi resta» (E. Montale, La casa dei doganieri, 22). Esserci è tutto. Il tempo s’è fatta pia illusione di un «Oceano senz’onda» (G. Pascoli, Alexandros, I 7), immobile nello scorrere frenetico. Solo così può attuarsi il festina lente, scelto non a caso da Aldo Manuzio (il delfino per il primo e l’ancora per il secondo), come emblema per le sue edizioni che resistono ai secoli più del fragile cascame tipografico quotidianamente gettato nei maceri. La realtà è più ossimorica della rappresentazione verbale che s’affanna a sanarne le contraddizioni, spesso apparenti. Il mio amico Ingegnere ne è più consapevole di me, o almeno lo dà a intendere, sempre con gli occhi al cielo a fissare gli aerei, una delle sue irrefrenabili passioni.

Il tempo non esiste. È un ritaglio più o meno riuscito dell’infinita serie dei secoli. Non nascondiamocelo. È una rappresentazione del mondo. Oggi si tende a obliterarlo, ricercandone la radice. Sarà la velocità della luce a determinarlo? Ma se non esiste, come si fa a registrarne il passaggio. Parlo sempre del tempo, certo. Se ciò che fu e simile a ciò che sarà, se insomma penso il passato e il futuro, come posso conoscerlo, se lo intuisco appena nel momento in cui muore, che – tra l’altro – è lo stesso in cui nasce? Sì, il tempo non esiste: è esistito, esisterà, ma non esiste. È un fiume immobile. Gli antichi lo sapevano bene e ne circondavano il mondo nella loro ricerca di senso: c’era un limite oltre cui tutto era inghiottito, «abisso orrido, immenso, / ov’ei precipitando, il tutto oblia» (G. Leopardi, Canto notturno d’un pastore errante dell’Asia, 35-36). Forse perché il tempo è antico come è antico il mondo.

Mi stringo nelle spalle, il mio amico Ingegnere lo sa. Non oso dirgli che pure lo spazio esiste solo come immagine. Sublime immagine, intendiamoci, ma pura immagine, soprattutto nel momento in cui si vuole obliterare la dimensione metafisica. Oltre la fisica, oltre il dato empirico, è ovvio, rimane il mistero inconoscibile: «le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante» (Par. I 103-105). Chissà, se così si sana la dicotomia tra fenomeno e noumeno: in Dio immagine riflessa, riflesso stesso e specchio coincidono con la cosa in sé, il principio ontologico. Mettiamolo pure su assi cartesiani, diamone pure le coordinate sul piano e nel suo perpendicolo. Dov’è lo spazio? forse esiste solo perché ne abbiamo tracciato i confini, il perimetro, abbiamo cercato di misurarlo. Ma dove inizia e dove finisce? Se non avessimo posto il punto al centro dell’ipotetico foglio, lo spazio non ci sarebbe. Lo abbiamo inventato noi per dissetare l’arsura di conoscenza che ci divora. Esiste forse il vuoto, ecco, attorno a quel punto. Ma è poi vuoto sul serio? Illusione, direbbe il buon Leopardi, ragionando sulla materialità dell’infinito e sull’infinità materiale.

Mi sa che resta solo la poesia, linguaggio dei linguaggi, parola creatrice per eccellenza, quella che aleggiava sulle acque prima che fossero separate dalla terra. Mito o realtà? E chi può affermare con certezza l’infondatezza del primo e la sicurezza della seconda? Anche il mio amico Ingegnere farebbe uno dei sorrisi dei suoi, per dimostrarmi che è solidale, che ha compreso il nocciolo della questione. Ed è vero: sa sempre tutto. Mi verrebbe da rispondergli, sospirando: non equidem invideo, miror magis (Virgilio, Eclogae, I 11), ma poi lascio perdere. Non è il caso, lo so: mi perderei solo in quella «selva selvaggia e aspra e forte» (Inf. I 5) che altro non è, se proprio si vuole insistere, se non «la divina foresta spessa e viva» (Purg. XXVIII 2), dove aleggia cantando e scegliendo fiori Matelda,

la felicità originaria, che pure non bastava a dare il senso ai progenitori e nemmeno agli ultimi degli ultimi nipoti. insomma, in questo giorno di ritorni, il tempo pare fermarsi in uno spazio che non esiste, con buona pace di sant’Agostino cui nemmeno veniva una definizione di tempo, figuriamoci di spazio. resta il poeta, appunto, e la sua poesia.

© Federico Cinti

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