By Marisa Salabelle
Se ho comprato Ferrovie del Messico, di Gian Marco Griffi, la colpa è di Giulio Mozzi. Da quando questo libro è uscito, pochi mesi fa, per la casa editrice Laurana, tutti i santi giorni il Mozzi ha pubblicato su Facebook la foto della copertina del romanzo e i pareri entusiastici di scrittori, editor e intellettuali di vario tipo che l’avevano letto o lo stavano leggendo e ne erano rimasti folgorati. Un battage implacabile che ha permesso al libro di farsi conoscere e soprattutto ristampare più volte nel giro di poche settimane. Al primo di questi spot mi sono detta, oh, bene, Griffi ha pubblicato un nuovo libro. Al secondo ho pensato, guarda lì che malloppo: infatti il volume conta ben 816 pagine. Al terzo ho detto no, non è possibile che tutta questa gente se lo stia leggendo, al quarto, è certo una mossa astuta di Mozzi, che ha chiesto agli scrittori suoi amici di dire un gran bene del libro che però si sono ben guardati dal leggere. Poi ho pensato che palle Mozzi, che palle Griffi, che palle sarà il romanzo: poi un giorno l’ho visto alla libreria Lo spazio e niente, l’ho dovuto comprare per forza.
È passata una settimana da quel giorno e stamattina ho concluso la lettura. E quindi, Ferrovie del Messico è davvero un capolavoro, un’opera originalissima, un romanzo imperdibile? La mia risposta è sì, lo è. Non è perfetto, ha qualche pagina di troppo, ma questo è un bene, perché i grandi romanzi non sono mai perfetti e perché la perfezione uccide la letteratura. In compenso è appassionante, divertente, pirotecnico e sorprendente. Ha un’altissima leggibilità nonostante si avvalga di un lessico estremamente ricco e di parole desuete, gergali, tecniche. Nonostante i riferimenti a un’infinità di opere letterarie alle quali chiaramente si ispira, non dà affatto la sensazione di un’esibizione culturale fine a se stessa. Insomma, è un libro importante, che credo si possa ascrivere alla categoria dei romanzi-mondo, oltre che a quella dei romanzi fiume, impegnativo ma al tempo stesso godibile.
La storia, di per sé semplice, è quella di un milite della Repubblica di Salò (siamo nel febbraio del 1944), Cesco Magetti, oppresso da un feroce mal di denti e impegnato, per ordini superiori, a redigere una mappa delle ferrovie del Messico. Lo svolgimento di tale missione lo porterà, com’è giusto che sia, a recarsi in vari luoghi, a contattare diverse persone, a fare incontri più o meno strani e a innamorarsi perdutamente, con la costante del dolore al dente che lo distrugge e che non riesce a curare a causa del suo innato terrore del dentista. Accompagnando Cesco in quello che è un vero e proprio “viaggio dell’eroe” Griffi scatena una fantasia inesauribile che lo porta a creare personaggi straordinari come i due becchini, lo sfortunato Giovanni Masovelli, l’orfana Giustina, il nobile bibliofilo, i poeti frenatori e via discorrendo. Entrare nei dettagli della trama è impossibile e toglierebbe al lettore tutto il divertimento; è però possibile dire qualcosa sulla straordinaria versatilità della lingua di Griffi, che spazia dal tecnicismo di certi lessici professionali al gergo dei malavitosi, dall’enumerazione al recitativo all’aggettivazione sovrabbondante e barocca, senza mai perdere, tuttavia, la base colloquiale, accessibile, che rende il romanzo altamente leggibile nonostante la mole, la varietà dei temi e dei registri linguistici e le tortuosità della trama.
Ricco di ascendenze e di riferimenti a opere e autori talvolta facilmente riconoscibili, talvolta ben mimetizzati, il romanzo, borgesiano, bolañiano, dantesco, pynchoniano, riesce però a evitare di apparire eccessivamente “colto” e iperletterario, perché i riferimenti a opere e autori non sono una mano di vernice, ma appartengono alla sua struttura profonda e la determinano. Che se poi qualcuno non li riconosce tutti, non importa, si diverte lo stesso.
Insomma, cosa aspettate a correre in libreria?
Grazie.
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